Moreno Cedroni Madonnina del Pescatore Senigallia


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INTERVISTA A MORENO CEDRONI - RISTORANTE MADONNINA DEL PESCATORE


Quando conosci Moreno Cedroni, la prima cosa che ti colpisce sono i suoi occhi, chiari e grandi, dotati di quella luce che contraddistingue chi vive ogni momento con attenzione, senza mai distrarsi, con curiosità, acutezza e con la lungimiranza di chi è sempre un passo avanti rispetto agli altri.


Moreno è proprio così, mi ha dato l’idea di un inquieto dalle idee chiare, svelto di pensiero e, ancor più, nell’azione, un uomo che, quando vede un percorso, lo segue fino in fondo, incurante di quelle che saranno le difficoltà da affrontare, forte di quella capacità, di quel talento innato e di quell’istinto che solo i fuoriclasse hanno.


Lui è un fuoriclasse. Diplomato all’istituto nautico, a causa della mancanza di lavoro in quel settore, decise di guadagnarsi da vivere facendo il cameriere, finché non ebbe l’occasione di acquistare, insieme ad un altro socio, il suo attuale ristorante .

Il sodalizio non durò a lungo e, con l’aiuto economico del papà, Moreno rilevò anche l’altra metà; non ancora appagato, di lì a poco, incominciò a cimentarsi ai fornelli ma - come lui stesso racconta - prima di sentirsi degno di indossare la giacca da chef, passarono altri due anni.


Il percorso, però, era ormai tracciato, perché dalla costanza, dalla perseveranza e forse anche da un po’ di incoscienza, stava nascendo uno tra i primissimi chef del panorama gastronomico italiano, uno tra i più apprezzati all’estero, precursore di quell’avanguardia espressiva che rappresenta il fiore all’occhiello della nostra cucina.

Non lo conoscevo prima e, pur avendolo incrociato in più occasioni, mai avevamo avuto modo di parlare, così sono andato a trovarlo presso il suo ristorante, “Madonnina del pescatore” di Senigallia.

E’ stata una piacevole conversazione, che riporto integralmente.


Moreno, come ti sei avvicinato al mondo della ristorazione?

Quando avevo 15 anni c’era la consuetudine di mandare i ragazzi a fare la stagione al mare e anche i miei genitori non si sottrassero a questa regola. A fine stagione, però, ti dava gusto scoprire che potevi comprare il motorino o la vespa. Poi, finito il nautico, scuola che ho frequentato con molto piacere, non c’erano grandi sbocchi e il futuro erano le petroliere. Era una cosa che non vedevo di buon occhio e allora ho proseguito nell’ambito della ristorazione. Qui c’era l’occasione di rilevare questi locali e così, nel 1984, l’ho fatto insieme ad un socio, iniziando così la mia storia. Avevo vent’anni e facevo il cameriere. Pensandoci adesso, se allora ci fosse stato il boom delle navi da crociera, sicuramente avrei fatto il capitano di una di quelle navi. Invece sono diventato capitano di questa nave, prima approfondendo tutto quello che c’era da approfondire in sala: ho fatto il corso da sommelier e andavo ai mercati e alle aste del pesce. Poi, nell’87 io e il mio socio, con il quale non c’era molta corrispondenza, abbiamo diviso la società e sono rimasto solo, finché, nell’88 - poiché mi ero stufato di stare in sala, di portare sempre gli stessi piatti e di far sempre le stesse cose - ho deciso di andare in cucina. Con molta umiltà, però senza mettere la giacca da cuoco perché non sentivo di meritarla e quindi cucinavo con camicia e grembiule.

Così ho iniziato a fare decine di corsi presso l’Etoile di Sottomarina, alcuni utili altri meno e pian piano ho sentito che dentro di me c’era una passione, un talento che poi è sfociato nel 97 quando ho fatto uno stage da Ferran Adrià. Lì ho preso consapevolezza, mi sono reso conto di come molti giovani non facciano uscire il talento che è in loro, perché non hanno occasione di farlo.


Hai avuto coraggio?

No, nel mio caso era proprio il voler fare quella cosa, era insoddisfazione di quello che facevo prima.


Quindi?

Quindi mi sono messo a fare meglio quello che già si faceva, cioè la cucina tradizionale, e poi pian piano a fare qualche piatto diverso un pochino più elaborato, ma senza troppi stravolgimenti. Allora ogni cosa che cambiavi si ripercuoteva sui coperti, cioè eliminavi il fritto e il 50% delle persone non ti tornavano più, quindi dovevi fare delle scelte molto ponderate, piccoli cambiamenti. Gradatamente sono passato a fare il menù che volevo e sono riuscito a farmi conoscere.


E così è arrivata la prima stella…

Io ho sempre fatto tutto per migliorare, ma, naturalmente, se nel frattempo arrivava la stella o le tre forchette o dei buoni punteggi ne ero felice. Ma non lavoravo per quello, il mio obiettivo era lavorare sempre meglio e far stare bene i miei clienti.


Quindi i riconoscimenti sono stati una conseguenza non una ricerca. E poi?

Poi il lavoro ha portato la spinta e le energie per rinnovare, così abbiamo affrontato una prima ristrutturazione nel ‘90, che è durata una decina d’anni. Nel 2000/2001 ne abbiamo fatta una seconda, molto importante e che ci porteremo nel tempo, perché il ristorante non era più in sintonia con i piatti che si facevano.


Sul tuo sito ho letto che ami giocare tra le radici della tradizione culinaria italiana e la vivacità del tuo spirito visionario. Me la spieghi?

Lo spirito visionario è quando hai delle idee in testa, viaggi e quindi assaggi nuovi ingredienti, impari nuovi sapori, poi ritorni a casa tua e vuoi mettere in pratica queste cose, quindi hai una visione di un qualcosa che devi poi coniugare con quello che è il tuo posto, le tue tradizioni, il tuo microclima e i tuoi clienti e quindi riportarla nel piatto. Come accade nel menù del “Clandestino”, dove la visione di un tema, di un idea, diventa un menù. Quest’anno mi ha ispirato “susci e british”, l’anno scorso le favole, l’anno prima il susci selvaggio, cioè abbinamento tra pesce e selvaggina. Fare un piatto ispirato a Pollicino direi che è una visione, e trovo molto bello essere visionari in questo senso.


Susci e non sushi. Perché?

Stai entrando in un discorso molto importante. Per quanto riguarda il crudo, ho dettato nuove regole, nuovi canoni che non erano più quelli del pesce marinato nell’aceto e nel limone o quelli del rotolino con il riso bagnato nella soia e l’alga nori; era, invece, un mondo che si apriva sul crudo, dove quel crudo lo puoi abbinare a quello che vuoi, basta che sia buono, basta che la consistenza, la texture del pesce siano esaltate. Volendo banalizzare, non ho fatto altro che applicare sul crudo i concetti che si applicano sul cotto. Quindi anche averlo chiamato “susci” come si pronuncia in italiano, che poteva sembrare di aver fatto il verso al sushi giapponese, poi è stato vincente perché si è capito il concetto e ho anche pubblicato una serie di libri in modo da mettere nero su bianco quello che facevo. Perché se non lo pubblichi poi rimane volatile e lo spirito dei cuochi è molto libertino, quindi ognuno può dire di averlo fatto. Invece, così, la paternità è tua, tutti si possono ispirare, però almeno qualche soddisfazione, a questo mondo, ti rimane, ecco.


Infatti, mi chiedevo se questo gioco sull’assonanza non potesse sfociare nel rischio di banalizzazione, mentre poi il concetto è più complesso.

E’ una scatola, un contenitore. Se il contenitore lo riempi di contenuti, ogni anno fai un tema nuovo sul crudo, poi lo spieghi, lo fai assaggiare e lo pubblichi. Allora la scatola si riempie.


Sul libro “Autoritratto della cucina italiana”, oltre te individui altri 5 chef come interpreti della cucina d’avanguardia. Si tratta di Bottura, Crippa, Scabin, Cracco e Lopriore. Cosa intendi esattamente per cucina d’avanguardia?

L’avanguardia è dettata da nuove idee, nuovi sapori, nuove forme. Guardi avanti, trasmetti dei messaggi nuovi al mondo della cucina. Non era ridicolo il messaggio della cucina francese di ridurre una salsa ed alleggerirla col burro? Però noi tutti ripetevamo questa cosa perché l’avevano detta i francesi. Io, invece, mi chiedevo sempre perché dovevo farla. Non avendo fatto il percorso canonico del cuoco, ho la mente più libera e posso permettermi di accogliere cose nuove.


Certo questo concetto di alleggerire col burro…

Sì, alleggerire col burro mi spaventava. Eppure c ‘era paura di proporre cose nuove, nuovi sapori, paura di perdere la clientela, paura della critica. Vivevamo in questa cappa di paura. Poi si è usciti, ognuno di noi, chi più chi meno, ha contribuito ad aprire questa cappa, realizzando concetti nuovi di cucina. Se vogliamo, questa è l’avanguardia, pur rimanendo molto vicino alle tue radici. L’avanguardia è come il design, se non è funzionale non serve a niente, quindi se quello che fai non è buono, non è recepito dal cliente nella maniera positiva. Insomma noi lavoriamo per il cliente, che è al centro di tutto. Quindi, se ti diverti solo tu non funziona, è necessario che si diverta anche il cliente.


Questo è un concetto molto bello, mi sembra di capire che, per te, la distanza tra avanguardia e tradizione non sia così ampia.

Io sono più per la progressione di una scala di grigi che per i contrasti tra il bianco e il nero, questa è la mia indole. Far contrasti tra il bianco e il nero è molto facile, fare una scala di grigi è molto raffinato, devi operare di fioretto con colpi precisissimi e mirati. Ecco io voglio stare in pace con me e con il cliente, voglio che il cliente torni e abbia assaggiato cose nuove e che se le ricordi, perché è normale che delle ricette tradizionali abbia un ricordo assodato. Noi per primi siamo i paladini delle nostre ricette tradizionali, quelle con cui sono cresciuto e ho nel DNA. E proprio quando ho aperto le ho portate avanti a spada tratta, perché erano il mio unico bagaglio, la mia unica conoscenza. Però poi ho anche capito che bisognava allargarla questa conoscenza, sennò rimanevo fermo. Questa è stata la forza di Senigallia, che, altrimenti, come tante marinerie d’Italia, sarebbe rimasta ferma ad una cucina di pesce tradizionale caratterizzata dal pescato del giorno e dal pesce pulito in sala, come ho fatto anch’io per tanti anni.


Possiamo parlare, quindi, di un’evoluzione partita da solide basi nella tradizione?

E’ esattamente quello che abbiamo fatto a Senigallia io e Mauro (Uliassi - ndr), con idee diverse a soli 5 km di distanza. Così la città è esplosa diventando un capoluogo del cibo. Ora molti aprono a Senigallia e molti giovani ci prendono come riferimento, rendendo tutto molto bello e importante. Sono contento di questo. C’è il cliente che viene e fa le due tappe, fa la notte in albergo, e ho notato che alle nostre due cucine unisce sempre una cucina tradizionale o un osteria di Senigallia.


Come nasce, invece, l’idea di Anikò?

Anikò nasce nel 2003 come salumeria di pesce e ìl nome significa “tutte cose”, cioè l’esagerazione di avere tutto. A Senigallia quando uno vuol dire che ha mangiato tanto, ha visto tanto, ha fatto tanto, dice che ha mangiato anikò, ha visto anikò, ha fatto anikò. Anikò vuol dire che c’è tutto. Tutto sono le conserve, i salumi di pesce, la bresaola di tonno, lo spada affumicato, lo sgombro, la ricciola, e poi i prodotti di gastronomia, le scatolette, la mortadella, il Pata negra. Queste cose le mangi in un ambiente spogliato di costi accessori, dalla tovaglia a un certo tipo di posate. E’ molto bello perché mangi e bevi bene in modo più libero. Nel corso degli anni, però, a causa della liberalizzazione delle licenze, l’appeal di Anikò è calato, così ho analizzato tutto molto bene e ho deciso di proporre una serie di piatti semplici, ma buoni e a prezzi bassi. Quindi ho fatto i miei vecchi piatti, come la frittatina morbida con i frutti di mare e l’insalata di mare, aumentando la proposta gastronomica. Ho messo un panino con il tonno crudo, ho messo un fish and chips ed ecco che si è risvegliato l’interesse verso Anikò. Un’altra cosa importante che ho fatto è stata quella di rinnovare “Il Clandestino”, analizzando le critiche. Allora mi sono messo davanti a un piatto del menù alla carta pensando di mangiarlo in una stanza chiusa e pensando che non l’avesse fatto Moreno Cedroni. Quanto vale questo piatto? 15? 20? 25? Gli ho dato il prezzo in base al valore percepito e, così facendo, da quest’anno le critiche sono diminuite.


Sembra che il tuo sia un approccio non presuntuoso ma molto attento a quello che ti ritorna dalla sala

Io sono nato povero, quindi, è un approccio dettato dall’umiltà e dallo spirito di sacrificio. Mi sono sempre messo in discussione quindi non è possibile che io abbia un atteggiamento diverso.


Come si mangia in Italia?

Posso dire che non si è mai mangiato bene come adesso e l’Italia si sta facendo notare per la sua creatività, anche se all’estero abbiamo la nomea della pizza, delle polpette, degli spaghetti e della mozzarella che, comunque, è stata la nostra fortuna.


Che mi dici di Ferran Adrià?

Che se non fosse stato per lui eravamo tutti 15 anni indietro. Lui ha cambiato il modo di mangiare e di pensare il cibo nel Mondo. Una persona che ha dato così tanto e ha fatto tante pubblicazioni non è mai esistita.


Quanto conta la squadra?

Se non avessi avuto Mariella e i miei ragazzi non sarei arrivato a questo livello. Io ho sempre lavorato con persone brave che mi sono cercato, certo non ti capitano per caso.


Quanto, in un piatto, conta l’aspetto “salute”?

E la normalità. Questo è il nostro compito, per me la prima cosa nel piatto è la leggerezza, che è legata all’aspetto salutistico. I piatti devono essere digeribili, devono avere cotture brevi, rispettare la consistenza dell’alimento, bisogna trovare il miglior abbinamento degli ingredienti. Una volta il cliente si sarebbe voluto alzare pieno, ora la gente vuole stare bene e non gonfiarsi. Io penso che il mio menù rivesta questa filosofia, che poi è il segreto di Pulcinella. Se tu esalti l’ingrediente usando oli buonissimi, cotture perfette e dosando la quantità di sale, hai vinto.


Come nasce un piatto di Moreno Cedroni?

Creare un piatto è un pensiero creativo, un moto mentale che può nascere leggendo Pollicino o Il brutto anatroccolo, oppure pensando a dei sapori che ti girano nella testa, o portando ingredienti nuovi in cucina. Con un ingrediente conosciuto come il basilico è talmente ovvio che ti puoi permettere di utilizzarlo in mille modi, ma con il mastice, ad esempio, se non l’hai mai usato, è più complesso. Stai lì e lo guardi, lui ti guarda e ti dice:”E adesso che facciamo?”


Simpatica metafora che, però, rende bene l’idea. Ma qual è il tuo piatto preferito?

Lo spaghetto al pomodoro, un piatto che mangerei tutti i giorni.


Mi dai la tua ricetta?

Cipolla, un po’ d’aglio, olio non eccessivamente piccante o amaro, cottura brevissima, 7/8 minuti al massimo, una buona pasta e pomodoro ben maturo, la cosa più importante e anche la più difficile, perché da noi talvolta non arrivano pomodori alla giusta maturazione. Se vado da Gennaro (Esposito) o da Pino e Ciccio (Cuttaia e Sultano) trovo pomodori buonissimi, mentre da queste parti non è così facile e quello è il vero segreto di una buona pasta al pomodoro.


Vuol dire che la prossima volta che verrò a trovarti ti porterò dalla Puglia un paio di casse di pomodori fiaschetti di Torre Guaceto e mi farai assaggiare i tuoi spaghetti al pomodoro.

Si può fare…

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