Una chiacchierata con Silver Succi, chef del ristorante Quartopiano di Rimini
di Sandro Romano
Chi è Silver Succi?
Ho 50 anni e vengo da Forlimpopoli, il paese dove è nato Pellegrino Artusi. Ho frequentato la Scuola alberghiera statale “Marebello”, dove ho avuto come professore Aniello Di Lieto, che ha saputo trasmettermi il piacere di creare e fare questo lavoro. Dopo questi cinque anni ho avuto la fortuna di incontrare i miei due maestri di vita lavorativa, Vincenzo Cammerucci e Gino Angelini.
Angelini è stato un po’ il maestro di tanti in queste zone.
Angelini, qui in Romagna, negli anni 70 ha creato un gruppo molto unito. Ci si spostava tutti insieme e si lavorava anche 20 ore al giorno senza problemi. Magari a 20 anni si possono avere altri pensieri per la testa, ma lui riusciva a trasmetterti quel piacere di lavorare e di stare in gruppo.
Perchè hai deciso di frequentare la scuola alberghiera?
Di solito si fa per andare in giro per il Mondo o per realizzare il sogno di avere un locale proprio. In giro per il Mondo non ci sono andato perché mi sono sposato molto presto e non me la sono sentita di andare all’estero, in America, in Francia o in Spagna, anche se, soprattutto quest’ultima, avrebbe rappresentato un’importante esperienza. Ho girato un po’ in Italia, tra Cortina, Madonna di Campiglio, Bologna, Tivoli lavorando molto insieme a Vincenzo, ma la mia scuola principale l’ho fatta qui in Romagna, tra Rimini, Riccione e Cesenatico. Poi, a una certa età, uno pensa che è arrivato il momento di prendere il volo per i cavoli suoi.
Da quanto tempo fai questo mestiere?
Appena ho iniziato la scuola ho avuto la fortuna di iniziare subito a lavorare, quindi sono ormai circa 35 anni. Allora non era come adesso; oggi un ragazzino ti arriva in cucina a 17 anni, ma non sa nemmeno come usare il coltello. Inoltre, se assumi uno di 18 anni o uno di 30, lo stipendio è praticamente lo stesso, solo che chiaramente il più giovane non ti rende come uno che ha già almeno 10 anni di esperienza.
Dimmi di Quartopiano...
E’ stato un po’ un colpo di fulmine. Avevamo deciso di prendere un locale da poter mandare avanti con 5 o 6 persone di personale, ma non ci è capitata l’occasione giusta. Quando abbiamo trovato questo, eravamo un po’ scettici perché pensavamo che, in Italia, un locale debba essere alla strada, mentre uno al quarto piano, all’interno di un centro congressi, si pensava non potesse avere successo con il rischio di essere confuso con una specie di mensa per i dipendenti dell’azienda.
Invece?
Invece tutto questo ci ha in parte favorito, perché evidentemente ha suscitato una certa curiosità. Inoltre il centro congressi ci dà una buona mole di lavoro fisso durante tutto l’arco dell’anno.
Quanti posti ha “Quartopiano”?
Noi non ammassiamo mai, ci fermiamo a 60/65 coperti anche se potremmo metterne più del doppio. È una politica che facciamo da tre anni.
Spiegati meglio.
La nostra cucina è fatta di diversi passaggi e, sono sicuro, andremmo in difficoltà sia noi che i ragazzi in sala. Aumentando i coperti, andremmo a rompere un equilibrio ormai consolidato tra sala e cucina.
Quindi un’organizzazione di lavoro finalizzata a mantenere uno standard qualitativo elevato e sempre uguale?
Sì, chi viene il lunedì o il giovedì deve trovare lo stesso servizio e la qualità che trova il sabato. Per questo, quando raggiungiamo i sessanta ospiti chiudiamo le prenotazioni .
Silver, mi racconti la tua cucina?
Intanto sono molto legato alla tradizione a cui appartengo, quella romagnola. Poi, essendo in una città di mare, uso soprattutto prodotti di mare locali, anche se abbiamo qualche chicca non locale sia di pesce che di carne. Quello che cerco di trasmettere al cliente è che, quando mangi al Quartopiano, devi sentire di essere in Romagna. Poi cerco di dare spazio in maniera uguale al gusto e all’effetto, cercando di esaltare la qualità del prodotto. Utilizzo anche pesci poveri e carni di cortile e sono aperto a qualsiasi tipo di innovazione, dalle basse temperature allo shock termico, considerando sempre che siamo in Romagna. Noi abbiamo a che fare tutto l’anno con la gente del posto e, da maggio a settembre o nei periodi delle fiere, con chi viene da fuori. E tutti devono poter dire di essere stati in un ristorante con una precisa identità.
Quindi tradizione, modernità, territorio?
Spazio dalla cucina tradizionale alla nouvelle cuisine, quindi rispetto gli alimenti e le stagionalità. Poi alleggerisco le cotture e riduco i grassi, usandoli più crudi che cotti. Bisogna capire che oggi non si mangia come trenta o quaranta anni fa.
Mi pare di capire che uno dei punti fermi della tua cucina sia la grande qualità degli ingredienti.
In effetti i prodotti che uso sono sempre di prima qualità. Fino a tre anni fa facevo il dipendente e mai mi sarei sognato di usare le materie prime che sto usando adesso.
Qual è quindi la formula migliore, chef imprenditore o chef dipendente ?
Lo Chef
imprenditore combatte con determinati costi e problematiche
che un dipendente non ha. Però sono consapevole che, per
portare avanti le mie idee, devo far combaciare i due ruoli, anche se
si va avanti tra mille difficoltà. Il ristorante è la punta di
diamante di un’organizzazione, ma le entrate sono ben altre, il
catering ad esempio. Noi, come ho già evidenziato, abbiamo la
fortuna di essere in un centro congressi che ci da comunque da fare
e, di conseguenza, posso osare un po’ di più.
Cosa pensi di questo progetto che abbiamo ideato noi di Oraviaggiando in collaborazione con La Madia, finalizzato ad avvicinare i giovani al mondo dell’alta ristorazione?
Sinceramente io non sono quello a cui piace apparire più di tanto, quindi odio un po’ tutte le modernità che ci sono oggi, dai computer a internet. Io sono un cuoco e preferisco essere nel mio guscio in cucina.
Mi sento contadino, perché abito in campagna e coltivo molti prodotti che poi propongo nel mio ristorante. Vado a far la spesa perché devo scegliere personalmente quello che poi i miei clienti ritrovano nel piatto. Questo, per me, significa essere cuoco; se vado a mangiare fuori ci vado a mio rischio e pericolo, non consulto le guide.
Quindi ritieni che si possa fare a meno di internet nella ristorazione moderna?
Non ho detto questo. Ormai non si può rimanere legati solo al passaparola, attraverso internet puoi vedere un posto a migliaia di chilometri di distanza e non si può negare che sia molto vantaggioso. Altro aspetto, invece, sono le critiche sul web. E’ facile criticare stando dietro una tastiera, sui forum siamo tutti bravi a parlare.
E’ più importante il giudizio del cliente o quello dei critici gastronomici? Secondo te è giusto che un critico possa giudicare senza saper cucinare?
Se i clienti mi rimandano indietro un piatto, magari più volte, vuol dire che qualcosa bisogna cambiarla. Certo, in quel piatto c’è la mia personalità, posso cambiarlo in corsa ma non lo stravolgo del tutto, anche se probabilmente vanno rivisti gli equilibri. Un piatto è fatto di equilibri di acidità, di contrasti di croccante, di morbido, di secco; se si trova il giusto equilibrio allora quello è un piatto azzeccato e solo il gradimento del cliente può dartene la certezza. Per quanto riguarda i critici mi rimane un po’ difficile comprendere l’indipendenza tra il saper giudicare e il saper cucinare. Io dico sempre che un cuoco o un cameriere dovrebbero provare ogni tanto a invertirsi per capire bene le difficoltà. Forse dovrebbero farlo anche i critici, almeno per sapere come si fa una certa cosa o perché si fa in una certa maniera.
Quindi diffidi da chi ti dice di non saper cucinare ma di saper giudicare?
Dico solo che un critico potrebbe sicuramente capire meglio se avesse una buona infarinatura, un po’ come un calciatore potrebbe essere avvantaggiato nel fare l’arbitro. Ma ogni critica serve per migliorarsi, certo non prendo come “legge” tutto quello che mi viene detto. Critiche ne ricevo, ma anche tante soddisfazioni.
Secondo te quali sono gli elementi di un piatto “giusto”?
Intanto diciamo che la cucina è soggettiva, difficile dire qual è il piatto “giusto”. Certo sicuramente esiste la cucina buona e quella cattiva, ma, per me, un piatto deve avere il giusto equilibrio di sapori, contrasti di consistenze, leggerezza e gli ingredienti devono essere riconoscibili. In tutti i piatti cerchiamo di dare dei piccoli contrasti, però ogni ingrediente deve rimanere tale, un asparago deve sapere di asparago. Ogni ricetta deve essere fatta da un componente principale e gli altri elementi devono essere delle buone spalle senza prevalere sul principale, che si tratti di un agnello o di un piatto di pasta. Nei menù degustazione che creiamo qui al Quartopiano c’è sempre un crescendo di sapori, come in una scaletta prestabilita. Tutti i piatti vengono giudicati prima da noi della cucina, perché un piatto è un lavoro di equipe. Lo assaggiamo, sentiamo i diversi pareri, poi possiamo correggerlo perché chi lo assaggia mi può dare delle indicazioni. A volte, preso dalla bellezza del piatto posso non accorgermi se ho fatto una cosa giusta o errata. E nella preparazione ci mettiamo amore, un ingrediente che oggi non esiste quasi più...
Amore per il tuo lavoro?
Certo.
Ho notato che parli sempre al plurale. Quanto è importante la tua brigata?
E’ essenziale. Noi passiamo in cucina dalle 12 alle 14 ore al giorno, però arriviamo la mattina e iniziamo a scherzare, andiamo via la sera e scherziamo ancora. Si fa gruppo e i risultati vengono, perché il lavoro di squadra è tutto.
Ogni quanto cambi il menù?
Seguendo la stagionalità le varie voci possono cambiare anche sei volte l’anno, ma l’ossatura è fissa.
Cosa credi che la gente non abbia ancora capito della tua cucina?
Penso che quello che vogliamo trasmettere la maggior parte delle volte venga capito. L’unico rammarico che ho è che sono sempre stato un po’ dietro le quinte, non ho saputo vendermi in maniera adeguata. Mi piacerebbe ma non è nella mia natura. Sarei stupido e falso nel dire che i riconoscimenti non mi piacciono, ma per averli devi spaziare oltre il tuo locale, devi uscire, devi partecipare e io, sinceramente, non so se sono pronto ad un esposizione mediatica e, per farlo, dovrei togliere del tempo a quest’ambiente che mi piace molto e alla mia famiglia.
Qual è stata la tua più grande soddisfazione e quale la delusione più grande?
Non saprei dirti la soddisfazione più grande, perché per me la soddisfazione è giornaliera nel fare questo lavoro. Ho però un grande rammarico: quando lavoravo a Pesaro ho trascurato la famiglia, non vedendo praticamente crescere mio figlio per quasi cinque anni.
Cosa vedi nel futuro di Silver Succi?
Credo tantissimo in questo locale, vedo qui il mio futuro.
Grazie di avermi dedicato un po’ del tuo tempo, penso che da questa intervista sia venuta fuori davvero un’immagine completa di te, della tua personalità, del tuo modo di vedere le cose.
Credo anch’io, però che fatica. Io sono molto più a mio agio dietro ai fornelli.
E allora dopo tante chiacchiere passiamo al lato pratico, mi fai assaggiare la tua cucina?
Con
vero piacere.
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