Ristorante Uliassi Senigallia


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Intervista a Mauro Uliassi - ristorante Uliassi Senigallia


Con Mauro Uliassi non ci si annoia, l’argomento più scialbo diventa scoppiettante, ogni storia ha il fascino della predestinazione e ogni frase subisce la musicalità del dialetto senigalliese che amplifica – se mai ce ne fosse stato bisogno – la simpatia di quest'uomo. Ho deciso, quindi, di dipingere il ritratto di questo grande chef utilizzando proprio il suo vero linguaggio, il suo modo di parlare, intercalato anche da qualche parola un po’ forte. Per farlo mi avvarrò di qualche licenza (che riporterò in corsivo) e riporterò qualche frase detta in marchigiano, allo scopo di trasferire il ritmo e l’atmosfera di grande naturalezza creatasi tra me e Mauro.

Ecco quanto ci siamo detti, davanti ad un buon caffè, dopo aver assaggiato la sua cucina.

Mauro, come si diventa un grande chef?

Culo.


Dai Mauro, non ci credo.

Senti, io ho avuto la fortuna che i miei genitori mi hanno sempre fatto fare quello che volevo, anche le cazzate, anche quando non ero sicuramente un figliolo da vantarsene, perché fino a 23 anni ne ho combinate di tutti i colori. Persino i carabinieri sono venuti a prendermi a casa, però i miei genitori mi hanno cresciuto con tanti insegnamenti, con quelle basi che secondo me sono molto importanti, il senso del rispetto e della libertà, oltre a quell’amor proprio che ti evita di sbagliare. Anche quando ho preso percorsi ambigui o pericolosi mi sono mosso sempre sapendo cosa rischiavo, tenendo sempre bene in vista la via d’uscita, e godendomi quella situazione senza farmi male del tutto. La trasgressione è bellissima ma non devi cadere nella trappola. E così ho avuto la fortuna di conoscere diversi ambienti e di crescere senza preoccuparmi di quello che avrei fatto domani, perché non dovevo dimostrare nulla ai miei genitori. Lavoravo soltanto perché me lo avevano insegnato loro, non certo con passione.

Cosa vuoi dire?
Voglio dire che sono sempre stato libero di fare quello che volevo. Allora, io prima ho iniziato a frequentare l’Itis, una scuola veramente noiosa, poi mi sono iscritto all’alberghiero, una scuola giocosa, perché c’erano tante donne, era divertente, avevi a che fare col cibo, se ‘mbriacavan (si ubriacavano) tutti. Immagina un’aula in cui tutti ridono perché a un certo punto erano tutti mbriachi (ubriachi). Adesso non è più così, ma all’epoca mia sì. Poi, una cosa che mi ha sempre affascinato è la figura femminile a cui non sono per nulla insensibile… Sai, il piacere, che ti piacciano le donne o gli uomini, sempre piacere è.

Devo scrivere anche questo?
Certo, che puoi scriverlo, questo è vero eh!

Dicevi della scuola…
Ah si! Capisco che, grazie a questa scuola, potevo rendermi indipendente dai miei genitori, del resto erano stati proprio loro che mi avevano insegnato a cavarmela da solo. Infatti comincio a lavorare nei bar e nelle discoteche, per cui mi si apre un mondo che, cazzarola, mi piaceva da morire. Per dire, le brasiliane chi cavolo le aveva viste mai, io ero convinto che fossero tutte nere invece ho scoperto che c’erano quelle bianche, persino quelle bionde! Per cui entrai in un mondo che mi dava gusto un bel po’, mi sentivo figo con lo smoking e tutto imbrillantinato. Un mondo di adulti, tutta gente con i macchinoni, vita di notte, gente che beve, gente che fuma. Poi vado a fare le stagioni d’estate e, nel ‘76, mandato da mia madre, vado ad Asti a lavorare 16/17 ore al giorno senza giorno libero, in un posto di alto livello frequentato dai Gancia, dagli Agnelli, dove veniva la Juventus… Per gli ospiti c’era a disposizione di tutto, veramente il massimo, mentre per noi, spesso, non c’era neanche il tempo di mangiare, tutto era per gli altri. In quel periodo andavo in bagno a piagne (a piangere) perché mi dicevo:” Ma ‘ndò m’ha mandat’ mi madre (ma dove mi ha mandato la mia mamma)!!! “ Lì ho fatto il primo, il secondo e il terzo anno, poi gli altri due anni ho fatto stagioni a Riccione dove a fine anni ‘70 c’era un’atmosfera particolare, tutto era nuovo, tutto in esplosione, c’era accettazione e non condanna. Era tutta un’esplosione di vita, ma è proprio lì che decido di non voler fare il cuoco. Così, a luglio, finisco la maturità - ecco perché ti dico che ho avuto fortuna - e, poco prima dell’inizio del nuovo anno scolastico un mio amico va a scuola a presentare la domanda per insegnare e mi chiede di accompagnarlo. Io ci vado e la segretaria mi fa compilare e firmare un foglio. Di lì a poco mi chiamano e mi dicono:”Prof. Uliassi vada a insegnare”. Noi eravamo la prima classe di cuochi che prendeva la maturità, perché prima di noi ci si fermava al terzo anno, così io passo in pochi giorni dal banco alla cattedra, quindi stipendio fisso, mi iscrivo a sociologia e lavoro nei locali solo quando ho voglia. Insomma una coincidenza di situazioni. Ero indipendente economicamente, facevo le stagioni e guadagnavo bene, davvero molto bene.

Fin qui non mi pare che ti sia scoppiata la passione per questo lavoro, però...
Infatti. Il momento in cui ho deciso di fare seriamente questo mestiere è stato quando ho conosciuto mia moglie. Un mio amico mi invita ad una cena con altre persone e tra me e questa donna nasce improvvisamente qualcosa, ci guardiamo negli occhi e scappiamo via piantando tutti. Passiamo insieme tre giorni durante i quali scopro di essere innamorato perso, poi cucino per il suo compleanno e incomincio a realizzare che tutta la magia creatasi in quell’occasione e tutta la gratitudine che la gente provava erano per me. In quel periodo capisco che la parte femminile di un cuoco è molto sexy agli occhi di una donna perché comunque riesci a trovare un’empatia particolare che altrimenti non avresti. Inoltre lì capii che stavo facendo qualcosa di importante.

E poi?
Nell’ 86 abbiamo aperto il primo ristorante, la Pizzaria da Mauro. Io posso dire che sono stati due i momenti precisi della mia vita in cui mi sono sentito investito da un’energia positiva. Il primo è stato quando ho conosciuto mia moglie e il secondo quando ho acquistato questo ristorante. Anche questo ristorante, che ho comprato da un amico, l’ho soffiato a un mediatore, che praticamente l’aveva già acquistato, offrendo un pugno di milioni in più. Il mediatore pensò che il mio amico stesse giocando al rialzo e così non fece una controproposta. Il bello è che questo mediatore era un vecchio rivale di mio nonno, che faceva il suo stesso mestiere. Infatti, successivamente, si complimentò con me rivelandomi che, se lo avesse saputo, non se lo sarebbe mai lasciato scappare.

Quindi l’acquisto di questo ristorante è stato un passaggio fondamentale?
Sì, questo è un posto magico. Da qui hai il porto, il mare, la spiaggia e la città, in pochi metri ti sposti con quattro situazioni diverse. Il successo commerciale è stato immediato, dopo tre anni avevamo ripagato i debiti e dovevamo scegliere se rimanere così o migliorarci. Siamo andati avanti, abbiamo reinvestito e siamo cresciuti di livello, fino alle due stelle Michelin.

Come nasce un grande piatto?

Studio, associazioni improvvise, a volte anche prendendo spunto da una ricetta assaggiata in una piccola trattoria. Se assaggio un buon piatto nella tua trattoria e capisco che è sfruttato al 60%, mentre penso che possa esprimere il 100%, nel momento stesso in cui io riesco ad ampliare il risultato di quello che tu stai facendo, posso essere autorizzato a farlo, ovviamente riconoscendo di aver preso spunto dalla tua idea. Questo lo faceva Ferran Adrià, , lo diceva Steve Jobs e persino Picasso sosteneva che i grandi artisti copiano, quelli ancora più grandi rubano le idee degli altri.

Qual’è la tua prossima sfida?
La nuova sfida per me è sempre il quotidiano. E’ importantissimo, anzi fondamentale, sganciarsi sempre da qualsiasi successo passato, per concentrarsi costantemente sull’oggi e sul domani. Ma, a parte le cazzate che io racconto, come avete mangiato?

Molto bene, ho notato le materie prime di grande qualità, che tu conosci perfettamente; quello che metti nel piatto, anche quando è meno usuale, non è mai per dare un gusto esotico, ma per raggiungere un equilibrio che a volte si trasforma, in bocca, in un’esplosione, un rimbalzo di sapori che mi sembra la caratteristica principale della tua cucina. Soprattutto trovo che questa ricerca dei contrasti non sia mai eccessiva, è sempre molto piacevole, i sapori li senti tutti e li riconosci e questa è la cosa bella. C’è quel pizzico di estro che serve a rendere la tua cucina riconoscibile. Cazzarola, come parlate bene voi giornalisti!

Allora dimmi, che ne pensi dei giornalisti gastronomici?
I giornalisti gastronomici sono una benedizione, perché veicolano la cultura della gastronomia. Se non ci fossero, molte cose non si conoscerebbero e anche le guide sono molto importanti. Dopodechè (poi), come in ogni campo, ci sono quelli bravi e quelli meno bravi, chi ci capisce poco e chi è fortemente competente. Una volta chiesero a Ferran Adrià cosa ne pensasse di coloro che scrivono sulle guide e lui rispose che quando scrivono bene sono fantastici, quando scrivono male sono degli str..zi.i mai visti.

Ma il gastronomo giornalista, secondo te, deve saper cucinare?
No. Non è così importante, è come se il critico d’arte dovesse saper dipingere. Saper mangiare e saper cucinare sono due cose diverse. Anzi ti dico di più, un cuoco non può fare il gastronomo.

Non dirmi che, se vai a mangiare in un ristorante, non sei capace di valutarlo. Non ci credo!
Io faccio la radiografia a un piatto e posso avere anche una competenza molto più alta di un gastronomo, però non riesco a dare un giudizio che si distacchi da quello che è il mio percorso professionale, scevro da condizionamenti. Tu, come gastronomo, questo condizionamento non ce l’hai.

Non è importante sapere come si è arrivati a quel piatto?
No, anzi saperlo è diventato, in passato, un’arma a doppio taglio, perché può condizionarti sia positivamente che negativamente. Prima devi essere puro, lo mangi e decidi se ti piace, se è buono, se non ti piace, se è armonico o disarmonico. Solo dopo puoi avere la curiosità di sapere come si è arrivati a quel risultato. Agli inizi degli anni ’90 i cuochi venivano condannati se usavano la tecnologia, se usavano il microonde, l’abbattitore, il sottovuoto, perché si riteneva che la materia prima venisse rovinata se non cucinata in modo convenzionale. Io posso cucinare con un trapano, una bacchetta, un tornio, un martello, ma l’importante è che quello che cucino ti piaccia.

Quindi, il gusto prima di tutto?
Assolutamente sì, il cibo è quello, è il piacere di mangiare. Se sei legato alla necessità di mangiare, tutto prende un altro aspetto. Chi mangia è alla ricerca del piacere e il cuoco deve saperglielo dare. Quello che avete assaggiato oggi è un menù di dieci portate, studiato per emozionare giocando con il cibo. Quando, per esempio, mangi una fiorentina, il gusto è uguale dall’inizio alla fine e incarna un desiderio di cibo che non è quello di soddisfare un piacere, ma solo perché hai fame e vuoi mangiare una certa cosa. Diverso è mangiare un gambero e sentirne la sua salinità, il suo profumo, giocando con la buccia del limone, con il profumo del basilico e del cardamomo, con la delicatezza dei fiori di zucca…

Mauro, pensi che la collaborazione tra cuochi sia importante?
Sì, è importantissima. Se io, ad esempio, ho bisogno di cucinare qualcosa che non sono abituato ad usare, ad esempio un polpo, alzo il telefono e chiamo in Sicilia Pino Cuttaia o Ciccio Sultano e loro sono generosissimi nel dirmi come fare. Se loro mi chiamano per una notizia su un prodotto che io conosco bene, mi sento onorato e mi comporto allo stesso modo. Prima, invece, c’erano problemi nella comunicazione tra cuochi. Se consideriamo i tre maestri della cucina degli anni ‘80/‘90, Gualtiero Marchesi, Gianfranco Vissani e Fulvio Pierangelini, difficilmente tra loro c’era collaborazione. Erano i più grandi del Mondo, i più bravi, la cucina loro l’hanno traghettatata nel passaggio da quella delle trattorie a quella professionale, ma fra loro non comunicavano. Gualtiero Marchesi ha fatto una roba grossa, perché prima di lui, in gran parte dei ristoranti, cucinavano le donne delle campagne e non i cuochi professionisti

Cos’era la ristorazione italiana prima di Gualtiero Marchesi?
Prima i grandi chef stavano sulle navi, nelle case dei ricchi oppure negli alberghi cinque stelle lusso e la loro cucina era legata alla capacità di replicare i grandi classici. La cucina innovativa, in Italia, arriva molto dopo, con Gianfranco Vissani e con l’avvento di Ferran Adrià. Anche lo chef patron, figura che nasce in Francia già nel 1700, in Italia nasce con Marchesi; noi lo siamo diventati dopo che lui ci aveva dato l’esempio. E poi c’è da dire che, se oggi esiste in Italia la grande ristorazione, è perché loro hanno iniziato un percorso che è tornato utile a tutti. Attualmente in Italia stiamo esprimendo una grande, grandissima cucina, senza dover necessariamente essere di rottura con nulla. Abbiamo appreso lezioni di organizzazione dai francesi, di creatività dalla Spagna, ed ora siamo molto consapevoli delle nostre potenzialità.

Quindi tradizione o innovazione?
L’innovazione prende sempre moltissimo dalla cultura della tradizione.

Nella tua cucina usi addensanti, lecitine, gommine, pectine, additivi?
Noi usiamo tutto ciò che è legalmente possibile usare, ovviamente con competenza e conoscenza dei prodotti e delle tecniche.

La cucina deve rispecchiare il territorio?
Sì, ma non deve neppure essere un limite. Oggi, una cosa veramente importante è l’aspetto salutistico di un piatto, cioè come darsi soddisfazione mangiando bene, ma senza farsi male. Credo che il menù che avete assaggiato oggi ne sia un esempio.

Mi viene di farti una domanda un po’ scontata.
Ok, ma non la fare retorica (lo dice con la “o” chiusa per imitare il mio accento barese, anche se, in verità, sembra più un accento sardo, in quanto noi baresi abbiamo le vocali aperte).

Qual’è il piatto che preferisci?
Io non ho un piatto che mi piace particolarmente. A me piace sempre l’ultimo piatto che ho fatto, perché è quello che contiene tutte le esperienze precedenti e tutti i miglioramenti. Anche in amore è cosi, l’ultimo innamoramento si arricchisce di tutti quelli precedenti.

Cosa pensi dei tuoi colleghi chef?
A me piacciono tantissimo i cuochi giovani, bravi e di talento. Certe volte succede che il cuoco super affermato si cristallizzi in una dimensione che può allontanarlo dalla realtà, perché, quando tutti ti dicono continuamente che sei bravo, rischi di rimanere intrappolato nel meccanismo che quello che fai funziona sempre e corri il pericolo di sentirti troppo sicuro.

C’è competizione fra voi grandi protagonisti della ristorazione italiana?
Certamente il mondo della cucina è un mondo come tutti gli altri, come quello dei giornalisti, degli artisti, dello sport e di tutti gli ambienti del fare. La competizione è naturale ed è legata al desiderio di primeggiare ma, come ti dicevo prima, a differenza dei tempi in cui i cuochi si guardavano storto e non si parlavano, pur essendoci una sana competizione, si è scoperto il valore e gli enormi vantaggi dell’aggregazione . Pensa che da un paio di anni ci siamo spontaneamente strutturati in un gruppo che si chiama i “Cavalieri della cucina italiana”.

Un nome importante, qual è il suo significato?
E’ stato scelto perché si tratta di un gruppo i cui principi sono quelli tipici della cavalleria, cioè il forte desiderio di coalizzarsi creando forza, ma sempre con lealtà e rispetto. Ogni volta che ci ritroviamo siamo come un gruppo di galli che si vogliono fottere la stessa gallina, ma siamo anche molto felici di incontrarci e di esserci scelti, consapevoli sempre di più della straordinaria novità e unicità che abbiamo creato.

Che messaggio vorresti mandare al mondo della ristorazione?
Più che al mondo della ristorazione, voglio mandare un messaggio ai giovani, affinchè cerchino di capire quanto prima ciò che li appassiona di più. Perché vivere con passione la propria vita è la fortuna più grande che possa capitare. And that’s all. Sai, ho ripreso a studiare l’inglese.

Menu Giovane Gourmet


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